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La manutenzione delle parole: non esiste relazione senza linguaggio

Il Convegno di Siena mette a fuoco un tema molto ampio e spesso sfuggente: la comunicazione in sanità. Prof. Cavicchi, a lei che è uno dei massimi esperti del tema e negli anni ha prodotto testi capitali per chi si occupa di relazione e comunicazione, è stato affidato un intervento specifico sul linguaggio. Una importante novità nel tipo di approccio alla questione?

Credo che sia una delle prime volte in cui si parte da una distinzione precisa tra comunicazione e linguaggio. Spesso infatti questi due termini sono usati erroneamente come sinonimi tanto da creare una confusione di nozione, interpretazione e uso delle parole. Inoltre il convegno sembra essere stato impostato su una interessante intelaiatura retorica che fa del doppio senso uno strumento potente di significazione. “Relazione di cura e cura della relazione” cioè in altri termini come curare la relazione per usarla meglio e con più efficacia. Ma per fare questo è necessario focalizzare gli attori della cura, ridefinirne i ruoli e la fisionomia sganciandosi da una logica rigida di soggettivazione e oggettivazione. La chiave di volta di una analisi moderna è senza dubbio la complessità.

Il tema della complessità se da un lato apre su approfondimenti analitici e consente di spostare la prospettiva, dall’altra rischia di complicare le cose cioè di ‘ripiegare’ ulteriormente quegli strati di ambiguità e disinformazione che minano alla base la così detta comunicazione felice. Quali sono secondo lei i nodi cruciali del linguaggio in sanità?

Quando si parla di comunicazione in sanità si rischia di fare una grande confusione perché gli aspetti della questione sono molti e tutti molto sfaccettati. A mio avviso però l’errore più pericoloso – e forse anche il più semplice – è proprio confondere informazione e comunicazione. Per fare comunicazione basta un messaggio, uno spot, una stringa emotiva forte, ma per fare una buona informazione bisogna innanzitutto capire il destinatario, cioè il cittadino / malato che interpreta il messaggio prodotto.
Credo che i più grandi errori avvengano quando un messaggio viene trasformato automaticamente in informazione trascurando completamente il piano dell’interpretazione,  della credenza e della verità soggettiva. Cioè trascurando proprio il sistema di complessità che caratterizza quello specifico interlocutore. Ciò accade perché si parla di comunicazione, si abusa di questo termine, quasi sempre in assenza di linguaggio che è però la parte più importante di una relazione, ne è il nucleo fondativo. Tutto il dibattito filosofico del ‘900 e la così detta svolta linguistica attesta che conoscere il linguaggio è necessario per risalire al pensiero, per dare fisionomia al parlante, al tipo di interazione e quindi di relazione che mette in atto. Cioè il linguaggio percepisce il soggetto: senza questo passaggio non può esistere relazione.

Queste considerazioni acquisiscono una valenza più forte proprio nel rapporto di cura? Professore, possiamo dire che è con l’atto di parola che inizia la “somministrazione della fiducia”?

Sì, nel linguaggio si annida l’embrione del patto di fiducia e affidamento. (Lo sanno molto bene i media quando usano strategie linguistiche- al limite della manipolazione- per affondare in questa membrana sottile che divide neutralità e complicità nella comunicazione).
Nel caso del rapporto di cura, ricordiamo che già da anni di fatto il linguaggio è parte integrante della prescrizione medica. Infatti se la ricetta si rivolge all’oggetto, all’utente, il linguaggio spiega la prescrizione, cioè riattiva la soggettività. Fa già parte di una prescrizione. In questo senso allora il linguaggio è dispositivo di cura.

A che punto siamo oggi con la formazione dei medici su questi temi? Chi se ne occupa?

La medicina in generale e i medici hanno intuito l’importanza dello strumento linguistico ma non hanno ancora trasformato lo scenario di cura. Le Università di certo non si fanno carico di questo livello di formazione perché si dovrebbe impostare una nuova idea di formazione alla relazione. Le Università hanno fatto passi avanti in ambito clinico, di ricerca e di Ict ma sul piano epistemico siamo ancora ad una fase primordiale.
Per avviare una svolta in tema di formazione bisogna però a mio avviso interrogarsi sul programma futuro, cioè su che tipo di medico mi aspetto e voglio formare. Se un medico meccanicista, iperspecializzato o complesso. In tal caso però non è più possibile trascurare l’insegnamento linguistico come parte integrante di un percorso formativo che profili un medico appropriato (ad una regola), adeguato ad una complessità e attore di comportamenti cooperativi.
Se si acquisisse il paradigma della complessità come risorsa, del medico e del malato, si potrebbe conoscere di più e sbagliare di meno. E sondare la complessità è possibile solo se cominciamo a maneggiare il linguaggio con cura, se capiamo che un atto medico, inizia da un atto linguistico. Ce lo dice tutta la filosofia analitica del linguaggio, la svolta pragmatica: dire è fare e un atto di parola è un’azione che produce effetti.
Se i medici lavorassero su questo piano di analisi potrebbero andare oltre le banalità e le tautologie di ricette del buon comunicare e riacquisire la performatività del linguaggio che è effetto, rispetto dell’interlocutore e già premessa di cura.  

A cura di Rosa Revellino

Autore: Redazione FNOMCeO

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